Uno scrittore parte dalla sua verità personale, da quella vita oscura e vulnerabile che ha vissuto prima di diventare uno scrittore, una vita preziosa proprio perché perduta.
John Updike
Vi ho visto.
Ecco, direi così. Si tratta di una visione, voglio essere chiaro, non di un sogno. Non mi piacciono quasi mai i sogni, quando sono raccontati nei libri. Rendono la scrittura falsa e stopposa.
Questa è una visione. Ha cominciato a battermi sulle tempie, e più batteva sulle tempie e più si chiariva, e più si chiariva più mi ossessionava.
Non ho voglia nemmeno di chiedermi come raccontarla. L’avrei fatto in altre circostanze, non ora. Se in terza persona, con quale artificio descrittivo, con quale trucco, con quale grado di partecipazione. Se sparire come “io narrante”, se invece esserci. Tutte quelle cose di cui si discute a lungo e spesso a vuoto nelle scuole di scrittura. Non è questo il momento.
Li ho visti con molta chiarezza – anzi, dirò meglio: nitore. Ogni tanto vale la pena usare parole che si usano quasi solo scrivendo. Sennò finisce che restano lì a dormire – inerti, dimenticate – ed è un peccato.
Nitore ha a che fare con la lucentezza, con l’atto di splendere.
Una chiarezza luminosa che mi permetterebbe di descrivere, o almeno di provare a descrivere, per esempio, la consistenza, la trama del maglione viola che lei indossa sotto un giubbino scuro. Le trecce nel disegno della lana. E il diamantino falso dell’anello che a un certo punto ne aggancia un filo e lo sdipana.
L’evento le fa uscire un ooh nooo prolungato. Si imbroncia: un po’ per gioco e un po’ per davvero. La reazione volutamente infantile non fa che rivelare un dispiacere che è già diventato un senso di colpa; e alla luce fredda di un lampione rende di nuovo visibile, incredibilmente vivo, il viso di una bambina dietro quello di una sedicenne.
Vi ho visto.
Tutti e quattro, lì, davanti a un cinema di provincia che ha un nome stupido, “Supercinema”.
È un sabato pomeriggio di inizio gennaio, umido. È appena passata l’Epifania.
È appena finito un secolo.
Quanto dura? domanda la madre-dell’artista all’artista – che, scendendo dalla Panda celestina, rivolto a chi l’ha accompagnato fa una faccia che andrebbe definita semplicemente una delle sue facce. Perché questo basterebbe a chi l’ha conosciuto adolescente a ricordarselo e a sorridere.
Le sue espressioni mobilissime, stralunate. Le guance senza barba come pasta di pane, appena un po’ unta. È nel pieno della sua maniacale, allegramente maniacale, ambizione di attore. Si esibisce di continuo, cerca di stupire. Ai suoi coetanei non è chiaro, non può esserlo, lo sforzo titanico che compie quasi a ogni minuto per vincere la timidezza. Strano ma frequente paradosso, l’attore timido.
Quanto dura? domanda la madre-dell’artista agli altri, e si riferisce al film. Deve sapere quando tornare a prendere il figlio. Due ore, risponde il muscoloso, che emana odore di gel. Buono, dolciastro. È l’unico che indossa la camicia. L’unico che dopo il cinema esce, ovvero resta in giro, e farà tardi. Da ultimo gli è preso di tirarsi indietro i capelli e di inamidarli con una quantità eccessiva di fissante.
Lei sfiora con le mani quella calotta, scherza: esageri, guarda che poi ti cadranno tutti!
L’artista le fa eco, e lo guarda. Lo squadra: con invidia, anche se non ammetterebbe mai di provarla. E forse ha ragione, perché se ci pensa bene no, non vuole essere il muscoloso. Nella parte più profonda di sé non vuole esserlo: lui è l’artista, ha la sua passione, ha un futuro. L’altro è superficiale, bello belloccio sì, forse, comunque superficiale. Lo giudica peggio: vuoto, e in questo sbaglia. Vorrebbe vederlo nudo, semmai, ma questo non è un pensiero su cui ha il coraggio di sostare.
Il solitario arriva per ultimo. Come sempre, fa notare lei. Dai che perdiamo il film. C’è tempo, sorride lui e sembra calmo, c’è tempo.
Ha archiviato nella sua testa un dettaglio che agli altri sfugge e non fa effetto: siamo da otto giorni nel 2000, è il primo film che vediamo in un nuovo millennio. Se lo tiene per sé. Dice invece, per smarcarsi da quella specie di debolezza altrui: io i popcorn non li mangio.
Come vuoi, risponde lei, io invece sì. Il solitario legge in questa frase una piccola sfida.
Gli impedisce di rispondere l’artista, che di nuovo offre una delle sue elastiche facce da cinema.
(Una cosa tipo The Mask, quel film con Jim Carrey... E con Cameron Diaz. Cameron Diaz. Cameron Diaz è la sua passione. La nomina di continuo. Come il nome di una santa in una litania. Cameron Diaz! Prega per noi!)
L’artista fa la sua faccia e si prende la scena. Chiede a lei se va bene dividersi la ciotola più grande. Quella gigante, per capirci. Il solitario, prima ancora di entrare in sala, vede – prevede – le mani di lei e dell’artista ficcarsi e sfiorarsi, chiuse a becco, nello spazio della ciotola comune.
Involontariamente. Forse sì, involontariamente, ma chi può dirlo. Non gli piace, non vorrebbe che accadesse. Accadrà: nel buio che ora finalmente li avvolge, schierati alla quarta fila contando dallo schermo.
Colpa tua che sei arrivato tardi, bisbiglia lei al solitario mentre prendono posto e lui fa in modo di non capitarle accanto.
Eccovi schierati.
L’artista che abbraccia la ciotola gigante di popcorn.
Lei con il maglione viola e quel filo triste che sembra il capo di un gomitolo.
Il muscoloso che sa di gel e indossa la camicia come un uomo.
Il solitario che si volta a guardare i suoi amici. Sospira. La luce dello schermo bacia i profili come un chiarore lunare.
Se siamo tutti e tre innamorati di lei, si dice, non lo siamo allo stesso modo. Ma non può completare il pensiero perché il film sta cominciando. D’altra parte, non è detto che quella sia la verità.
La proiezione si inceppa al primo fotogramma.
La platea non resta in silenzio per molto. Parte in fretta un brusio sorpreso, infastidito. Ma no, zitti, ora riprende. Sì, guarda, ricomincia. Shhh.
Vero, la proiezione sembra ripresa, però le immagini che passano sullo schermo non fanno pensare al film per cui avete fatto il biglietto. Vi viene il dubbio di avere sbagliato sala.
Vi trattiene, anzi vi inchioda alle poltroncine la pronuncia di un nome – che è il nome di uno di voi.
Farebbe trasalire chiunque il sentirsi chiamati all’improvviso, pur sapendo che si tratta di una finzione. Dallo schermo, comunque, qualcuno – una voce femminile – ripete quel nome, lo grida però con dolcezza, come per dare coraggio. Poi si vede una mano che carezza una fronte sudata, e si coglie che è una mano maschile, e che è la mano di un uomo che sta per diventare padre.
La donna che sta per diventare madre – in qualche modo lo è già – dev’essere lei, perché con il suo nome viene chiamata, e chiamata ancora, e implorata, e incoraggiata.
Adesso urla, e nell’urlo che la trasfigura voi la riconoscete come la vostra amica nel futuro. In un futuro forse nemmeno troppo lontano, che il grande schermo annuncia come una profezia e rende visibile come se fosse tutto già accaduto.
E mentre lei, sconvolta, trafitta da quelle immagini assurde che le scorrono davanti agli occhi, sta cominciando a piangere di imbarazzo, di vergogna, di paura, mentre voi siete lì a chiedervi, storditi, che cosa significhi tutto questo, l’assurdità a cui state assistendo, e a chi appartenga quella mano maschile – è forse la mia mano? la mano di uno di noi? Soltanto il solitario lo pensa per un istante minimo, labile, sfarinato dal passaggio brusco all’inquadratura successiva.
Dove c’è lui – è lui di sicuro, il solitario, con una barba disordinata, rossiccia, una barba adulta. Cammina. In una giornata che sembra grigia e spenta, per le strade di una città che sembra una grande città, una città indifferente a lui e al suo ingresso in una tavola calda. Frequentata da vecchi che vivono soli, da gente che non cucina mai. I piatti sono sempre gli stessi, identici da decenni. Ordina un piatto di lenticchie e salsiccia, dice al commesso di non scaldare, e sbaglia: si capisce dall’espressione che fa portando alla bocca una rondella di carne gelida e compatta.
È una smorfia di una tristezza lacerante, che non c’entra solo con la carne fredda, c’entra con la sua vita in quella tarda mattina di un gennaio che arriverà diciassette anni dopo il gennaio in corso, anche se non c’è nessuna didascalia. C’è solo un uomo che continua a masticare male guardando nel vuoto.
Il muscoloso compare in un negozio di abbigliamento. Sembra che sia lì per provare un completo scuro, lo maneggia, lo espone alla luce. Niente che possa stupire. Se non quando lo si vede accostarsi a un camerino e consegnare l’abito al tizio in mutande che dovrà provarlo. Gli decanta la qualità, la leggerezza del tessuto con un tono di voce molto diverso da quello, esitante, insicuro, con cui di solito risponde alle domande di un’interrogazione. Mentre il cliente è ancora dietro la tenda grigia, passa una collega in tailleur, bella, formosa, lui le stringe il braccio con una presa che forse è un segnale. La fede di lui scintilla al suo anulare.
L’artista, nella scena che segue, è a torso nudo e balla. Si dimena, agita le braccia. La musica è scadente, commerciale. I bassi rimbombano all’altezza dello sterno come un cuore amplificato. C’è una piccola folla maschile che si agita con lui, le luci del locale illuminano a intermittenza lembi di pelle – flash sparati sulla curva di un bicipite, su un collo possente, su una barba curata che diventa ambra, polvere d’oro. L’artista è scatenato, assente, non c’è allegria in quel danzare scomposto. C’è abbandono, energia muscolare. Un ragazzo gli si accosta, lo cinge. Sfrega il bacino contro il fianco di lui.
Il montaggio sembra impazzito. Cinema d’avanguardia. Videoarte. In ordine sparso lampeggiano sullo schermo dettagli ingigantiti.
L’angolo di una camera, pulviscolo che danza, un cane che dorme ai piedi del letto mentre due corpi sono intrecciati nel sesso. Si vede poco, si sente gemere. La porta, forse di un bagno, chiusa, contro cui una mano sferra pugni. Colpisce, colpisce più forte. L’urlo, dall’altra parte, arriva soffocato. Forse è un pianto. Un bambino che vomita, in primo piano, e si impiastriccia i capelli portandosi la mano al viso. Un acquazzone primaverile, un muro d’acqua, lo schianto di un’auto contro un motorino. Una figura femminile spalanca la portiera, corre fuori, si china sull’asfalto. Una gara di ginnastica per bambine, l’arancione acceso di una gonna di tulle che spicca sul rosa delle altre. Il tubo di una flebo che distilla la soluzione trasparente nelle vene di un braccio arreso, pallidissimo. Al centro di un tavolo in ghisa, una grossa torta che comincia a sfaldarsi in un pomeriggio grigio e caldo. Un oggetto che vola contro uno specchio, la crepa che si disegna all’istante, come una cicatrice sul vetro. Una camicia lavata con furia in un lavandino, strizzata con un’energia che sembra rabbiosa. Una doccia rimasta aperta nello spogliatoio di un campo da calcetto.
Che film strano, incomprensibile! Che film di merda, la vita adulta.
Vi riconoscete a tratti, sorpresi, sconcertati dalla sensazione che qualcosa vi riguarda, vi coinvolge. Un presagio che si incarna. Una rivelazione non richiesta. Brani di voi in un tempo che arriva – inevitabile, crudo. Brandelli di carne anonima, un seno di donna scoperto al sole, i capelli tagliati di fresco, una nuca con ancora qualcosa di infantile, i muscoli di un braccio gonfi nel sollevare un peso, la pelle sottile elastica di uno scroto con cui giocano dita femminili, denti ingialliti dal fumo, rughe intorno agli occhi, macchie piccole, quasi impercettibili sul dorso di una mano. (continua)
Nitore/film di merda la vita adulta/un presagio che si incarna.
Chi si affaccia a questo esperimento narrativo, subito fa la conoscenza con i quattro personaggi, delineati con nitore, con pochi tratti: la sedicenne dal maglione viola con un filo triste tirato, l'artista allegramente maniacale nell'ambizione di attore timido, il muscoloso con eccesso di gel (giudicato belloccio e superficiale), il solitario sempre in ritardo, consapevole del primo film del nuovo millennio. Siamo nel sabato pomeriggio dell'8 gennaio 2000, in un cinema di provincia. La proiezione del film "American Beauty" si inceppa e le carte del tempo si mescolano. Ai quattro sembra di vedere sullo schermo una serie di profezie, situazioni di 17 anni dopo. Una valanga di dettagli sconnessi, ma in qualche modo memorabili, destinati a durare, presagi che si incarnano, letteralmente, in nuca, scroto, dita, denti, rughe, macchie sulla mano. La citazione rovesciata dal film di Allen "La rosa purpurea del Cairo" serve come spunto per squarciare il diaframma tra la vita vera e quella rappresentata, proiettata, "visionata". Serve a creare il prodigio di una incursione nel tempo che scardina la cronologia lineare e regala maturità di esperienza a chi esperienza ancora non ha. Ritorna la tua riflessione su tempo e corpo, in veste nuova e promettente. Una lettura poliedrica, sensuale, con la forza della letteratura e la suggestione del cinema.
Una ouverture decisamente stimolante. Benissimo le "parole che si usano solo scrivendo"!! Sarà anche per questo che lo stile profuma di una - tutt'altro che supercliosa - poesia. Come nel buon tempo andato, pensiamo già, ingolositi, "...alla prossima puntata".