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Qualche riflessione dopo un mese di scrittura
(segue)
Il solitario non lo sa: quello del muscoloso è un piccolo inganno. Forse inganno è troppo? Allora un gioco, una specie di sfida. Se interrogato, non saprebbe spiegare perché abbia fatto sì con la testa. Perché abbia dato a credere di essere interessato a lei.
No, messa così non va bene, bisogna essere più precisi. Bisogna sforzarsi di essere più precisi. Scrivere è questo. Riformulo.
Il muscoloso – be’, il muscoloso non conosce, nel suo commercio quotidiano con le ragazze, nessuna esitazione, nessun imbarazzo. Nessuna insicurezza. Né in effetti gli si possono rimproverare pose tronfie, fastidiose: il suo bello è che esiste come è, poco pochissimo riflessivo. Avanza nel mondo senza attese e senza calcoli. Si fida di quello che fino a qui gli è venuto sempre facile. Forse nemmeno sa immaginare bene com’è quando, invece, è difficile. Perché dovrebbe?
È una questione di memoria animale: passi dove il sentiero non presenta intralci, ti ricordi la strada, rifai quella. Nel caso suo è sempre una strada corta. Esci a bere, sorridi, muovi un po’ le spalle, sorridi. Senza lambiccarsi, senza stare lì a rimuginare su quale frase pronunciare, su quale immagine proiettare di sé. Il muscoloso non prende le distanze da sé stesso, raramente si osserva da fuori: solo allo specchio, dopo la doccia, solo quando esamina la ricrescita dei peli sui pettorali; e bisogna riconoscergli che lo fa – guardarsi – senza eccessivo compiacimento. Non è il narciso che studia il proprio riflesso e se ne fa risucchiare. In lui tutto è naturale, calza mutande e pantaloni con un saltello che per altri sarebbe il primo passo di una danza, il ballo dell’auto-seduzione.
Ah, caro muscoloso, beato te.
Nella naturalezza che è anche istinto – assecondare l’onda, tirare in porta, seguire la strada corta e agevole, la strada ormai familiare – il muscoloso ha fatto sì con la testa.
“Non ho capito se lei piace anche a te.”
Perché mai dire no? Se nessuno glielo avesse chiesto, non ci avrebbe nemmeno pensato. Non è nemmeno uno, per fortuna, che si metta lì a compilare classifiche, a investire energie su programmi di conquista. Direbbe, a proposito del rapporto con lei, che sono amici. Scherzano, studiano insieme. Tifano Roma. Amano gli sport. Escono se capita. Vanno al cinema. No, non ci ha mai provato. E no, nemmeno lei è mai sembrata interessata. Interessata in quel senso. Bisogna essere onesti.
Però se uno ti chiede “ti piace?”, be’, se uno te lo chiede. Ecco. Se uno te lo chiede, rispondi. E fare sì con la testa non è mentire. La ragazza in questione lui la trova bella, sì, è evidente, è un’amica, sì, d’accordo, siamo amici, ma se mi chiedi se mi piace, ti rispondo.
Il problema è che – denti lavati – al momento di ficcarsi di nuovo sotto le coperte nel lettore matrimoniale si lascia scappare una frase che diventa una miccia. Come avesse dato fuoco alle lenzuola senza accorgersene.
“Poi, posso dire? I suoi capezzoli.”
Il solitario sgrana gli occhi, in allarme.
“I suoi–”
“Eh.”
“Che vuoi dire?”
“Quello che ho detto.”
“Li hai visti.”
“È una domanda?”
“Non lo so. Forse.”
“Se è una domanda, la risposta è sì. Ma è stato un caso.”
Il muscoloso nota l’agitazione dell’amico, che pare quasi trattenere il fiato. Ma non sta inventando niente, sta solo colorando un po’ un piccolo stupido episodio accaduto.
“Stavamo prendendo il sole sul terrazzo.”
“Avete preso il sole sul tuo terrazzo.”
“Ti sembra così strano?”
“No, è che non lo sapevo.”
“Non puoi sapere tutto.”
“No.”
“E comunque ti sfuggono tante cose.”
“Tipo?”
“Niente.”
“Stavate prendendo il sole sul terrazzo– ”
“Sì. Sta bene in costume.”
“Chi?”
“Sembri scemo. Lei. Si è messa a pancia in giù e – sai come fanno le ragazze?”
“Come?”
“Oh, sveglia! Che ti prende? Si è slacciata il pezzo sopra così non restava il segno.”
“Eh.”
Si è slacciata il pezzo sopra.
Questa stupida frase, questa stupida frase a sedici anni, questa stupida frase a sedici anni può ucciderti.
“Ma poi” continua sibillino il muscoloso. “Poi si è tirata su e le è scivolato fuori un seno.”
Il solitario tace, manda giù a fatica un bolo di saliva. L’altro sorride, con un’aria che all’amico sembra tutto fuorché innocente.
“Non pensare male.”
“Non penso niente.”
È sincero, ma ci tiene a precisare che non è successo nulla. Lei, imbarazzata, si è coperta all’istante.
Il solitario non sa se può fidarsi. Ma sì, sì, è così. Non è successo nulla.
“Però hai fatto in tempo a vedere.”
“Ho fatto in tempo.”
Muore dalla voglia di chiedergli dettagli. Vorrebbe sapere tutto. Vorrebbe trasferirgli un potere descrittivo che lui sente di avere e che il muscoloso no, non ha, si vede, si capisce mentre prova a balbettare qualcosa, a evocare il colore rosa salmone del bikini, a mimare con le mani uno spessore anatomico.
D’altra parte, che pretese! Che si può dire di più di un seno femminile? Un seno è un seno.
Arriva, il solitario, da lunghe sessioni di studio di quello di una modella, una modella di vent’anni o poco più – lui, dai suoi sedici, si sente un ragazzino sciocco e indiscreto. Laetitia Casta. Quella che ha presentato Sanremo. La cerca sulle riviste di gossip nelle sale d’attesa. Ma sono immagini che lasciano troppo spazio all’immaginazione. Troppo.
Un pomeriggio dell’inverno scorso – gennaio, fine gennaio – ha visto in edicola, esposto come un trofeo, un librone di fotografie. Lei in copertina, di profilo, nuda. Completamente nuda. Tiene le braccia in alto, una gamba sollevata per coprire il pube. Un’immagine elegante, in bianco e nero, ma il seno si vede, si vede benissimo. È abbondante, è ipnotico. Alto sopra le costole in rilievo.
Ci mette almeno una settimana a decidersi. Lo acquista timidamente, insieme a un paio di altri superflui giornali. Lo nasconde come si farebbe con una rivista pornografica, ma il formato è ingombrante e svetta, si impone. Arrivato a casa, lo nasconde con cura. Rimanda il momento in cui potrà dedicarsi alla contemplazione.
C’è in particolare un’immagine che consumerà a furia di scrutarla. Ci passa le dita, per qualche secondo anche le labbra, stupito da quello slancio, dalla goffaggine estrema del contatto fra cute umana e cellulosa. Però dio com’è bella questa ragazza con le sue imperfezioni, come dice una didascalia cretina, le sue piccole imperfezioni ne aumentano il fascino, e sì, comunque dev’essere così, sempre che si tratti di imperfezioni – i denti non regolari, che altro, boh.
In questa foto è seduta a terra, nuda completamente, dà le spalle al fotografo che deve averle detto: ora voltati, e lei si volta, i capelli mossi, le gambe incrociate, la schiena il sedere la forma di un seno netta sotto l’arco dell’ascella.
Strana forma del desiderio la forma che prende in questa mansardina un pomeriggio mentre quasi annotta sul finire di gennaio dell’ultimo anno del secolo. Strana questa ignoranza della carne, questa accelerazione del battito cardiaco nello spazio della fantasia – una fantasia che deborda, cresce su sé stessa, non ha un verso, non ha un senso, un sogno che sai di sognare, un orizzonte onirico diurno senza segnaletica, perché la verità è che con il seno di Laetitia Casta che guarda il fotografo e adesso guarda te non sapresti, ad averlo davanti o sotto le dita, che cosa fare – soffice spugnoso caldo soprattutto caldo, penseresti e pensi adesso, pensando al seno di lei che il muscoloso ha avuto a pochi centimetri dal naso.
Nella stanza del piccolo hotel di Barcellona dove tra poco entreranno finalmente nel sonno, i due coetanei restano zitti.
“Ho fatto in tempo” è l’ultima frase del muscoloso. Il solitario non è stato in grado di dire niente. Ha emesso un suono, un ah senza timbro.
Così l’iniziativa l’ha ripresa, consapevole del proprio vantaggio, il muscoloso. E gli ha fatto una domanda semplice ma imponente, forse proprio perché semplice. Una domanda a cui forse fino a questo istante della sua esistenza in forma umana sul pianeta detto Terra non aveva mai risposto.
“Sei geloso?”
Conosce quel sentimento. Esiste già – da quanto? dal medioevo dell’infanzia. E poi? L’ha tenuto per sé, direbbe che somiglia a una stretta, il morso che ha sentito su un polpaccio correndo via da un cane che lo inseguiva, per gioco forse ma lo inseguiva, è stato davanti alla scuola, tempo fa, qualcuno deve avere assistito a questa scena ridicola del tizio che si fa rincorrere dal cane, un cagnetto tutto sommato, come se si potesse temere un cane di quella taglia, e sì, si può, e arriva il morso, poco sotto il polpaccio, la gelosia somiglia, il cane ti rincorre e azzanna.
“Sì” dice, un po’ strozzato. Pieno di vergogna.
Fermati, tempo! Fermati, attimo, fermati se puoi.
Fermati attimo, sei bello. Dice Goethe nel Faust, dev’essere il Faust, ma adesso è irrilevante.
Attimo fermati perché questa stanzetta di un dimenticabile hotel di Barcellona è satura di nebbia, un vapore ormonale, una caligine in cui è difficile riconoscere perfino sé stessi. Tesi, ansiosi, eccitati, febbrili, come è pressoché impossibile tornare a essere, e soprattutto ignoranti, sì, splendidamente ignoranti.
Bussano alla porta. Sobbalzate entrambi.
“Sono io”, dice l’artista.
(continua)
Una bella sfida scrivere strada vivendo! Sotto scadenza, dentro il verso che non schiude né si apre ma dimora sospeso nell'attimo che batte fuori tempo come mettere in pausa e riprendere sotto la pioggia di un appuntamento irrinunciabile. Digressione direbbe un cantore in queste ore di caldo folle fuori all'aperto dove il condizionamento dei pensieri non è naturale. Il muscoloso più amico con lei che con lui, il solitario. Il rapporto acerbo come il sorriso nudo della Casta' scala di livello verso una nuova asticella da superare più in alto, dove la confidenza prova ad avvicinarsi a quella già più intima con lei, lei, sì lei che gli piace pure se proprio glielo chiedi. Irrompe la gelosia che strattona la confidenza che si fa tessitrice di timori imprevisti. La relazione a due diventa stretta, arriva l'artista: le confessioni si fanno simposio adolescente? È una puntata che sembra andare fuori dal tema del titolo che promette tutto su una madre, sembra una sbandata ma che succederà adesso che la partita a tre sta per iniziare? Lei, lei, la ragazza amica, desiderio armato, dov'è, che pensa, che sta facendo? È una pena subdola l'attesa che nell'agenda dice tra una settima strada vivendo: è una sfida ulteriore che non perdona ma assolve senza uno straccio di peccato, nell'ombra nascosta alla luce di questa giovinezza seducente. 👏
La divaricazione fra i due personaggi della puntata (naturalezza e "commercio quotidiano con le ragazze" contro "potere descrittivo" ma manche contatto fra epidermide e carta patinata) si precisa nelle due analessi, simmetricamente giocate sul tema del seno, quello concreto scoperto dal costume e quello fantasticato sulla carta patinata di cui quasi vergognarsi (perché?, perché non si ha la faccia totale del muscoloso?), e diventa così impudica, poetica celebrazione della imperfezione adolescenziale. Magari, c'è da augurarsi che - in una prossima puntata? - la stessa cosa sia vista anche "dalla parte di lei". In ottica femminile insomma, no?