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(segue)
Entra. Eccolo, l’artista. Guarda, studia rapidamente la situazione.
“Ho interrotto qualcosa?”
Sì, sembra che abbia interrotto qualcosa. Ma che cosa?
“Parlavamo” si affretta a rispondere il muscoloso, come dovesse sgombrare il campo dalle insinuazioni. Via, via. Ma quali? L’artista è muto, per ora. La sospensione resta ambigua.
“Che cosa c’è?” gli domanda, rompendo il silenzio, il muscoloso.
“Niente. Silvia è ubriaca. Completamente.”
“E quindi?”
Mossa inaspettata. Dal niente, nomina lei. “Dice se – ”
Dice se? Aspettano come cani affamati.
“Dice se la raggiungiamo, se le facciamo compagnia. Non le va di stare da sola, dice, con Silvia fuori di testa. Soprattutto, non le va di stare sola quando vomiterà.”
La questione pratica è irrilevante. Tutto ciò che conta è questa convocazione. Il muscoloso sguscia dalle lenzuola, è già in piedi a infilarsi i jeans. Il solitario indugia. L’artista se ne accorge, approfitta di quella indecisione e lo inchioda: “Vabbè, andiamo noi”. Lo dice guardando il muscoloso, guardandolo senza complicità ma guardandolo, mentre si chiude la patta. “Tu resta a dormire” aggiunge, con una punta di sarcasmo, o di irrisione, che il solitario trova no – non fastidiosa: insopportabile.
Ora potrebbe rispondergli male. Ma non è così allenato a rispondere male, a cercare il conflitto. Che sciocco. In fondo, lo sta sperimentando, lo sta comprendendo – crescere è comprendere, non tutto, non subito, ma un po’, un po’ di più, accostarsi alle verità del mondo adulto, intuirle, spesso senza farsene condizionare, e comunque, ecco: quasi nessuno è un pacifista, nella vita privata.
C’è sempre un progetto bellicoso che attende, che non vuole spegnersi. Dormicchia e all’improvviso si ridesta. Un’animosità latente che cerca un bersaglio – ignaro, spesso incolpevole.
Restiamo pur sempre, da decine di migliaia di anni, gente che sfida a duello altra gente. Che la provoca, la assalta, vorrebbe e prova a schiacciarla. Cerca alleanze, sponde strategiche, bande armate – anche solo di parole violente, che echeggiano le nostre e le rafforzano. Il turpiloquio è un buon carburante per i panzer invisibili con cui vorremmo spianare gli accampamenti nemici, le città in rivolta, gli stati canaglia che ci hanno tradito.
Visti da vicino, da vicinissimo, siamo tutti generali senza esercito: dichiariamo guerra ad amici che non consideriamo più tali, a colleghi la cui sola presenza ci indispone, a familiari, congiunti, parenti che non vorremmo lo fossero, amori che finiamo per chiamare ex, trascinandoli se serve in tribunale. Ma spariamo a zero anche sugli sconosciuti, con una rabbia e una ferocia di cui ci stupiamo per primi, come di una possessione. Sull’autobus, nel traffico, in coda da qualche parte.
L’utopia infantile e luminosa di ogni pacifismo si sfarina di fronte alle capacità personali di astio, alla propensione alla rissa dei singoli, o comunque: alla polemica. Polemizziamo su tutto, su tutti. Ininterrottamente.
Polemica da Polemos, no? il demone della guerra, ha scandito a suo tempo alla cattedra l’insegnante di greco.
Voi già non ascoltavate più: è l’ultima ora di un sabato, quando l’inizio dell’autunno sembra primavera. Vi accordate sottovoce sull’orario buono per trovarsi in piazza – chi con l’autobus, chi strappando un passaggio, nessuno ha ancora la patente – e raggiungere il cinema in tempo per il primo spettacolo.
Tutto su mia madre.
Il solitario ci ripensa adesso, senza un motivo preciso. Ci ripensa perché ha davanti l’artista. Ci ripensa perché è in pigiama in una camera di un dimenticabile hotel di Barcellona. E c’è quella scena quando la madre arriva in taxi di notte sotto la cattedrale incompiuta di Gaudí e parte quella musica, la canzone che dice Tajabone, e non so, fa venire un magone improvviso, fa venire voglia di piangere, piangere senza un perché, piangere perché la vita fa anche piangere, bisogna piangere ogni tanto e quella musica è perfetta per piangere.
Ci ripensa soprattutto perché mentre, indeciso se reagire, fissa l’artista ricorda un pensiero crudele che non voleva fare ma poi ha fatto, non sempre governiamo i pensieri, quasi mai, tantomeno i pensieri crudeli: fatto è che c’è un momento, in quel film di Almodóvar, in cui il ragazzo Esteban corre sotto la pioggia, è il giorno del suo compleanno, è andato a vedere a teatro Un tram che si chiama desiderio e all’uscita aspetta l’attrice protagonista per chiederle un autografo. Il solitario davanti a quella scena pensò: ecco, questo è l’artista. Un ragazzo che corre sotto la pioggia per chiedere un autografo a un’attrice famosa. Il problema – non so se problema è la parola giusta – è che correndo sotto la pioggia per inseguire l’auto dell’attrice, Esteban viene investito.
L’impatto fa sobbalzare gli spettatori. Il solitario pensa, come tutti: oddio. Ma un istante prima aveva sovrapposto l’immagine dell’artista a quella del ragazzo Esteban. E questo, be’, ecco, questo –
Allora adesso nella camera dell’hotel di Barcellona non dice niente, non risponde, non polemizza. Scusami, pensa. Scusa. Non lo dice. Non dice niente. Chi è il ragazzo che corre sotto la pioggia? Sei tu, sono io. Siamo più vicini di quanto crediamo. Non mi piace la tua canottiera. Non mi piacciono certe espressioni che fai. Ma siamo due che corrono sotto la pioggia, due che aspettano qualcuno per chiedergli l’autografo. No? Siamo due che pensano alla stessa ragazza. Siamo due che cercano. Cercano. Vogliono esistere. Provano a esprimersi. Aspettano lo sguardo che approvi, che confermi. Come Esteban, che scrive e scrive. Tu scrivi racconti. Io vorrei. Tu li fai leggere in giro. Un giorno li farò leggere in giro pure io. Fermiamoci qui, fermiamoci stanotte, senza polemica, senza disprezzo, senza mandarci a fanculo, senza –
Fermiamoci qui, artista, ti prego.
Fermiamoci dove la passione è uno spreco, dove non è un impegno con nessuno, dove non è ripetizione, dove l’ostinazione non è uno stipendio o un obbligo sociale. Dove non è una cosa da adulti.
Restiamo qui per sempre, tu sulla soglia, io su questo letto matrimoniale, nella lunga lunghissima intermittenza fra il non ancora e il non più, dove possiamo piacere solo a chi vogliamo piacere, dove non serve piacere a chi va compiaciuto blandito, un capo, chiunque disponga del potere di offrirci occasioni. Fermiamoci, ti prego, prima di salire sulla giostra adulta, quel calcinculo promettente e infingardo – i seggiolini volano, volano altissimi, tocchi il cielo, guarda, come si dice? Il cielo con un dito, il cielo al tramonto, la vertigine, l’altezza... Poi la giostra rallenta, rallenta, sta per fermarsi e niente, puoi rimettere il gettone, fare un altro giro, ma mentre rallentava hai visto qualcosa, hai intravisto una scritta al neon che dice INGANNO.
È felice questa irrilevanza stanotte.
Felice senza sapere di esserlo, è felice perché possiamo essere solo questo, non altro ci è richiesto. L’ignoranza è una forma di felicità qualche volta.
Siamo liberi. Non ti dirò niente.
“Andate voi, io mi metto a dormire”, dice il solitario.
(continua)
La felicità dell'irrilevanza è un titolo rilevatore e rivelatore, nella sua costruzione per ossimoro, della condizione sospesa dei sedicenni, nella "intermittenza fra il non ancora e il non più", prima di salire sulla giostra adulta della vita. Felicità inconsapevole, propria dell'età. Ma l'autore confronta la spinta a realizzare i propri progetti, l'aspirazione al successo, all'exsistere di due suoi personaggi con la messa in discussione e il ribaltamento di quel valore. Questo breve capitolo, con l'irruzione nella stanza del personaggio dell'artista, ricostituisce la triade dei maschi, continuando a esplorare le tre reazioni dei diversi comportamenti. Ancora Silvia è lontana, ma in uno stato sopra le righe, che chiede convocazione (non è chiaro da parte di chi, forse di un'amica). Il solitario, ci spiega l'autore, non è allenato a cercare il conflitto e non reagisce alla sarcastica esclusione da parte dell'artista. Ma intuisce una sorta di legge generale, "un'animosità latente" in cerca di sfogo. Così chi scrive presta al personaggio una riflessione sotto forma di digressione (piuttosto lunga), seguita da una sintesi sulla ininterrotta voce polemica che accomuna tutti. L'etimologia della parola, memoria scolastica, riconduce per associazione a un sabato all'inizio dell'autunno e alla visione al cinema del film di Almodovar "Tutto su mia madre". Un salto temporale permette al solitario di ripensare a una scena cruciale, sottolineata da una musica commovente, e di ricordare che il comportamento di Esteban gli aveva scatenato una identificazione con l'artista. Ma adesso è un'identificazione dubbiosa, perché la propria identità è piena di dubbi. L'iterazione di quel "due" e la comparsa ripetuta del trattino sospensivo lo testimoniano con chiarezza. Il desiderio di fermarsi sulla soglia tra le due età è ribadito dalle definizioni per negazione della passione, parola che riassume la difficoltà di auto-definirsi. Chiude il capitolo l'analogia tra la vorticosa rincorsa della giostra e l'invito a fermarsi, che ospita la saggezza di chi, oltrepassata la soglia negli anni, ha intuito l'inganno. Il racconto si mantiene all'interno di una stanza (sala cinema, camera d'albergo), non dà per ora importanza a luoghi, condizioni meteo, relazioni con altri personaggi. Si muove con spostamenti minimi, in una scacchiera di studio delle psicologie dei protagonisti, astraendo da dettagli e da richiami contemporanei all'anno fatidico. Ma ci sono altri capitoli in programma.
Com’è la vita per chi non accetta la polemos? Difficile vivere oggi in un mondo pieno di “progetti bellicosi” se non si è “generali senza esercito”. È la guerra che entra anche a distanza nel romanzo, le tante guerre individuali specchio delle carneficine collettive. Viene da piangere, perché la guerra fa piangere, perché la “vita fa anche piangere”, perché questa volta il cuore da donare è quello di tuo figlio. E sembra impossibile, tutto. Grazie. Grazie della poesia, grazie del riconoscersi uomini e donne che corrono insieme, che vivono la stessa attesa, che potrebbero semplicemente fermarsi. Basta polemos, basta. Mi ripeterò la preghiera bellissima di questa puntata: “Fermiamoci dove la passione è uno spreco … dove l’ostinazione non è uno stipendio”, dove ancora quello che ci costituisce come esseri umani - dico - permane. Se così fosse, magari, non si vedrebbe alcun inganno luminescente oppure l’unico inganno sarebbe quello meraviglioso della finzione letteraria, dell’homo ludens che giocando crea una lei e un lui che sono un “insieme di parole”, dentro cui mi riconosco io, ti riconosci tu. Come sempre grazie per questa attesa, sorprendente e lirica puntata.